
Intervista a me stesso.
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Non ama definirsi "un artista": perché?
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Perché diffido di tutte le qualifiche che non abbiano un riconoscimento, come dire, istituzionale o formale. Nel senso che un medico, ad esempio, deve superare delle prove oggettive e pubblicamente riconosciute per esercitare la sua professione. Ecco, un artista é invece tale per vox populi, una sorta di riconoscimento dalla piazza, dalla plebe, oggi, da internet. Lo trovo discutibilissimo.
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Allora?
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Allora mi discosto da questo tipo di definizione: assolutamente. Ciò che si può definire é semmai l'arte, ed é una cosa tutt'altro che banale. É un processo culturale che si distilla nel tempo, ed è spesso prodotto dai bisogni che la comunità umana prova, percepisce e sente "dopo", a posteriori.
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A questo punto l'arte contemporanea non esiste?
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Esattamente. Un cosiddetto artista é necessariamente poverissimo, isolato, outsider. Le cose che fa sono fuori mercato, é un visionario inascoltato, a tratti scomodo. Lontano da ogni autodefinizione. Un vero "artista" non si interessa affatto di arte. Tutto ciò che macina il "sistema" arte contemporanea é fagocitante, fuorviante, mercificante. La negazione dell'arte.
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Insomma l'artista dovrebbe essere, per usare un'espressione forte, un "morto di fame"?
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Questa ingrediente indubbiamente deporrebbe a suo favore: nettamente. Ma se non può inventarsi un doppio lavoro (quanti scrittori, e poeti, e artisti storicamente affermatisi hanno fatto altri lavori per vivere) deve trovare un mecenate, un protettore. E qui si apre un capitolo molto arduo che é poi quello dell'artista cortigiano che fa, come si suol dire, l' "usignolo dell'imperatore".
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Con tutto rispetto, non le sembra di portare avanti una visione tardo romantica dell'artista e dell'arte?
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Con tutto rispetto rispondo di no. Chiudere il filo di un pensiero dentro le gabbiette concettuali e pseudoculturali così tarde, mi pare semplicemente ridicolo. Ritengo più semplicemente che intraprendere un qualche cosa che corrisponde ad una spinta interiore, che posso senz'altro chiamare anche passione, che non ha un riscontro oggettivo, come appunto fare il medico o l'ingegnere, non può trovare giustificazione che nell'assoluta libertà dal mercato e dal potere
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Ma allora di che dovrebbe vivere un artista?
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Senz'altro d'aria.
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Veniamo a quella che non oso più chiamare arte, ma la sua ricerca. Su che cosa si basa?
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Si fonda su diversi piani, tutti irrazionali e istintivi che trovano, come Lei amerebbe definirli, romanticamente una base di partenza: la disperazione, l'inaccettabilità del mondo come é e sta. Non solo per le palesi e terribili ingiustizie sociali e la totale violenza che pratichiamo sulla cosiddetta natura, ma anche per la natura stessa, ingiusta con le sue malattie, con la "legge del più forte", con la sua siderale indifferenza. Mi rendo conto che siamo, noi umani, ospiti inattesi in questo mondo e siamo assolutamente inadatti.
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Una visione apocalittica.
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Direi alquanto. Un rigurgito etico mi riempie la bocca di vomito, ma poi se guardo l'etica si aggiunge anche la sincope. Vedo Auschwitz e Chernobyl: stupendi prodotti dell'etica umana. Perché i nazisti e gli scienziati agiscono tutti in nome dell'etica! Per non parlare delle fedi religiose che hanno scatenato guerre orribili. L'uomo é impazzito e spaventato di se stesso e del mondo che lo circonda e cerca furiosamente una soluzione alla spaventosa solitudine nella quale è gettato. Finisce così per fare solo cose orribili e terribili per ottenere scarsi e discutibilissimi e risibili vantaggi immediati.
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Qui siamo ancora alla filosofia, ma la cosiddetta ricerca artistica dove sta?
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La ricerca é frutto di una visione e non delle regole secolari, che oggi vuol dire soprattutto mercato globale. La visione é molto preoccupante e l'arte, semmai riconosciuta tra mille anni, ne sarà e ne è testimone. Quindi un tema che mi é caro é rappresentato dai rifiuti.
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Non è una novità guardare al trash.
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Le novità non mi appartengono, sono logica di mercato. Il tema dei rifiuti, del gettato via, ha grandi implicazioni. Tocca il tema del consumo, della rapidità dell'uso (appunto l'usa e getta), dell'abbandono, dell'inquinamento, perché ci lasciamo alle nostre spalle una velenosa scia di tossine come la bava di una lumaca che pretende di andare a cento all'ora.
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Quindi?
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Quindi raccolgo i rifiuti che diventano i cosiddetti "recuperati" e li assemblo insieme in maniera non funzionale, ma secondo miei criteri che forse qualcuno potrebbe trovare "estetici", ma anche questa é una categoria sfuggente e inopportuna. Ciò che mi interessa è dare a loro una nuova veste. Raccoglierli letteralmente dalla strada e portarli in una dimensione nuova e non restaurali affatto perché significherebbe renderli utili e quindi consumabili e quindi rigettati una volta finita la loro funzione.
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Recuperare, ristabilire nuove dimensioni, é un'operazione mentale e non necessariamente estetica, mi pare di capire.
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Lei ama le categorie mentali e allora potremmo dire che è un'operazione concettuale che non si preoccupa di assumere un valore estetico. Certo é una operazione mentale per dire: brutto sporcaccione guarda cosa fai alle cose che ti sono servite e guarda che magari sono dotate di bellezza. Non ti vergogni?!
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Lei, che tuonava contro l'etica, deve tirare sempre la morale a tutti?
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Può darsi che dia questa impressione, ma mi creda io stesso diffido della mia morale quindi preferirei dire che mi rinfaccio più di qualcosa. Nello stesso tempo, devo dire, che sono anche un'animista, credo che le cose abbiano un'anima e che le cose soffrano e patiscano. Ma qui dovrei essere più esatto. Più che animista tendo ad antropomorfizzare - terribile gesto imperialista - tutto. Credo che le cose abbandonate siano poi uomini abbandonati e reietti, che abbiano sentimenti e dolori. Come una crocerossina desidero salvarli.
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Quindi i bulloni arrugginiti, piuttosto che i cartoni o le pubblicità gettate via, o, ancora, pezzi di ferro, legno e via discorrendo, sarebbero uomini e donne gettati in strada?
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In qualche modo si. Vedo in essi il nostro futuro, senz'altro. Sono un nostro prodotto che anticipa la rovina. Recuperandoli in una nuova dimensione offro a loro un mio paradiso. Qui le implicazioni sarebbero lunghe perché aprono al tema, niente po' po' di meno, che della morte e della sua trascendenza.
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Senza polemica, ma non é un po' azzardato toccare il tema della morte e della trascendenza parlando di trash?
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Affatto. I rifiuti e le cose abbandonate sono l'annuncio sinistro non solo della morte, ma, che é ancor peggio, della nostra estinzione, il che, dal punto di vista della natura, é assolutamente indifferente. Assistiamo alla sconfitta della nostra razionalità intenta a modificare l'ambiente a nostro esclusivo ed egoistico beneficio. I rifiuti, il trash, denunciano la nostra insipienza e crudeltà. Quindi io recupero l'abbandono, lo reinterpreto, riconverto la funzione che aveva e ne faccio un nuovo oggetto. Incollo, inchiodo, vernicio, saldo, lego, accosto, decontestualizzo...
- Ci sono già stati artisti che si sono occupati di questo tema...
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I grandi collagisti, come Rotella o lo stesso Rauschenberg, per non dire del dadaista Kurt Schwitters o il costruttore di boxes come Joseph Cornell, hanno visto molte cose in anticipo. Alcuni hanno fatto fortuna e hanno anche cercato di farla usando il "sistema". Temo che in realtà il sistema abbia usato loro.
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Non le sembra un po' arcaico esprimersi ancora con termini come "sistema" per definire il suo quadro mentale?
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Lo é senz'altro. Credo che dovremmo riadeguare il nostro lessico, ma intanto non trovo espressione migliore e io non sono un linguista.
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Tuttavia mi risulta che lei non abbia realizzato solo opere "povere", ma abbia anche avvicinato il figurativo.
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È vero. Nella mia ricerca c'é anche il figurativo. Trovo ridicola la ripartizione passata tra astrattisti e figurativi. É una definizione e che non mi riguarda, sorpassata e prigioniera delle passate gabbie mentali. Nel mio caso il figurativo cerca di richiamarsi alla cosiddetta tradizione artistica del passato accostando dei veri e propri geni artistici come Michelangelo o Leonardo da Vinci. Si tratta di richiami immersi in nebbie, tratti confusi e impenetrabili, un'operazione che ha già fatto Rosenberg facendo trasparire immagini di opere di Botticelli piuttosto che di Raffaello. Ecco le antiche icone artistiche contaminate dalla banalità della pubblicità, delle vacue notizie dei rotocalchi. La pop art ha detto la sua in questa direzione, ma non credo si tratti di recuperare immagini stereotipate, serializzate di quelle opere d'incanto. Nel mio caso c'é il tentativo impossibile di ricopiarle, di imitarle, in maniera imperfetta, artigianale. É ben altro. É un'operazione nostalgica e impossibile come tutto il nostro sforzo di rivivere il passato.
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Lei dimostra quindi di avere dei maestri sia del passato che del presente. Questo non significa ammettere che esiste l'arte, gli artisti, i maestri che lei afferma di rigettare?
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Semmai il rigetto riguarda i tempi coevi e non il passato che nel suo filtraggio seleziona - anche se ammetto alle volte accidentalmente - ciò che ha valore, un valore sempre relativo a ciò del quale oggi abbisogniamo, per cui viviamo anche con il passato sull'onda di mode, di un adesso e di un subito. Per i miei contemporanei conservo una certa diffidenza, ma, a dire la verità, sono approdato a certe soluzioni, se così si possono chiamare queste mie nevrosi, in assoluta ignoranza finendo per scoprire dopo che i cosiddetti artisti miei contemporanei le aveva praticate e spesso con dignità e un certo acume. Sono quindi costretto a riconoscermi in loro, a considerarli con il dovuto rispetto, pur rimanendo diffidente sui modi in cui hanno fatto cassetta. Non sul fare cassetta, sia chiaro, ma sul modo che, secondo me, li ha costretti, ad un certo punto, ad accontentare la domanda piuttosto che l'ispirazione.
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Il mercato é una sua ossessione o sbaglio?
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Assolutamente si. Lo trovo pericolosissimo, un vero veleno, toglie il respiro e nello stesso tempo sembra che non possiamo più sottrarci al suo dominio. Da questo punto di vista amo gli street artist e i veri graffitari, l'arte, se pur così dobbiamo chiamarla, di rottura, fuori dalle gallerie e dai musei. Un'arte sporca, provocatoria, inquinante. Come a dire: può esistere ancora l'arte con l'inquinamento che produciamo? Con la crudeltà che esercitiamo sugli animali? Allora beccati lo spray sul bel muro candido.
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I graffiti sono però, in alcuni casi, belli!
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Quando hanno la pretesa di abbellire, di rendere colorate le squallide periferie, sono patetici. Quando si istituzionalizzano sono vacui, stucchevoli. Certo non c'è molto nello scarabocchio vandalico, anche se é un atto di ribellione, è un moto di nausea per le nostre società dal frigo stracolmo. Questo lo riconosco. E non mi convincono nemmeno i curati stencil di Banksy. É troppo ideologico, gioca sul paradosso del sistema capitalistico. É una sorta di realismo socialista della strada.
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Tuttavia proprio Banksy contesta il mercato e i musei e le gallerie d'arte. Dovrebbe essere un suo modello?
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Le gallerie d'arte possono essere orribili catene di consumismo banalizzante in mano a mestieranti o, non so cosa é peggio, a patetici e tristi epigoni che fanno gli amanuensi. Roba da strapaese, ai quali ci si aggrappa per fare due soldi, proprio due soldi. Raramente si tratta di luoghi di incontro culturale un attimo più autentici dove il gallerista rischia con il presunto artista l'insuccesso. Ovviamente l'insuccesso per me è un ottimo segno. Solo allora, sotto il fuoco dell'insuccesso, può nascere un rapporto vero, amicale, tensivo tra il presunto artista e il suo gallerista. I veri luoghi della ricerca sono i luoghi abbandonati e schifati da tutti. Io frequento, grazie ad un amico che ama questi luoghi come e più di me, caserme abbandonate, fabbriche distrutte, discariche a cielo aperto. Mi è capitatato, in questi luoghi, di conoscere giovanissimi e straordinari graffitari. La loro inquietudine é la mia, se così vogliamo chiamarla, ispirazione. In quanto a Banksy, e molti come lui, niente mi toglie dalla testa che il suo anonimato, il suo mistero, non sia altro che una componente per farsi quotare in borsa. Infatti Banksy vale migliaia di dollari oggi come oggi. I casi sono due: o lui ci ha fregato alla grande o lui é stato fregato alla grande. Temo che la prima ipotesi sia quella vera.
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Per concludere?
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Chi ama far ricerca, volgendosi verso le cose concrete e visibili, odorabili, tangibili al tatto, paga un prezzo e ricava poco. Non é un qualche cosa che possa interessare agli altri al punto da essere pagato. Ma come vivere sempre fuori, sempre out? Come non scendere nella storia, partecipare alle sue contraddizioni proprio nel momento che sono queste contraddizioni che gettano scandalo? Questo é il problema. Questa necessità di tenere un confine, ridisegnarlo, posizionarlo ogni volta di nuovo. Dammi di che vivere se quello che faccio ti dice qualcosa, ed è magari spesso qualcosa di poco simpatico. Ma la povertà é necessaria. É la miseria che dobbiamo rifuggire perché ci prosciuga, la miseria economica e mentale. Questo confine é insidioso e nello stesso tempo necessario ripercorrere ogni volta di nuovo. Il resto sarà il futuro a dettarlo.